So che rischio la retorica dicendo che è l’ incontro che ha cambiato le mie prospettive di vita, ma così è stato.
Ho imparato l’umiltà, ad accettare i miei limiti. Soprattutto ho imparato un’altra cosa che è stata poi l’oggetto dei miei studi e della mia pratica ancora oggi.

Se si entra nella stanza di quella che viene chiamata “intelligenza cognitiva” (vedi approfondimento ), spesso la troviamo angusta. Non sa scrivere, non conosce le basi del far di conto. A volte non discrimina i colori o non sa parlare. Ma se entriamo invece nella stanza delle emozioni, dei sentimenti, ecco che la troviamo ampia, luminosa e ricca di contenuti. Certo, tutto quello che un ragazzo può imparare, lo deve imparare e tanto più l’intervento in questo senso sarà precoce, tanti più apprendimenti potrà acquisire.

Ma non mi bastava più.

Mi sentivo potente quando insegnavo a uno di trent’anni a scrivere il suo nome e pensavo a quante parole avrebbe potuto imparare se glielo avessero insegnato a dieci anni. Ero contento io, se riuscivo a far utilizzare il telefono in modo che fosse in grado di comporre un numero utile in caso d’emergenza.
Ma non mi bastava più.

Tanto più l’incontro con l’altro diventava un incontro reale di persone, tanto più apprendevo la lezione fondamentale delle relazioni, che avrei riscoperto poi con la psicoterapia.
Nessun contenuto cognitivo può essere trasmesso se non si è costruita prima una buona relazione.

E una buona relazione si basa su buoni sentimenti.